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Il palazzo: l'archittettura, gli spazi e la storia

La storia del Palazzo

Il palazzo fu commissionato dal Vescovo di Ceneda Giovanni Grimani (in carica dal 1520 al 1531 e dal 1540 al 1545); la tradizione attribuisce la paternità del progetto a Jacopo Tatti detto il Sansovino (Firenze 1486 - Venezia 1570), architetto di Stato della Repubblica di Venezia, e venne realizzato tra il 1536 ed il 1537. Al secondo piano si trova infatti l'Aula del Maggior Consiglio, dove si riuniva il Consiglio generale, massimo organo politico e decisionale della città. Questa sala, sotto il dominio austriaco, tra il 1842 ed il 1844, venne affrescata con alcuni degli episodi storici più importanti nella storia di Ceneda, a opera di Giovanni De Min e Paolo Pajetta. Lungo tutto il perimetro del soffitto sono dipinti gli stemmi con i nomi di tutti i Vescovi della Diocesi di Ceneda prima e Vittorio Veneto poi. Nel loggiato esterno troviamo affreschi eseguiti da Pomponio Amalteo (1505-1588) su disegni di Pordenone (1484- 1539). Nel 1763 Ceneda fu annessa alla Repubblica di Venezia, anche se l'ultimo vescovo sovrano, Lorenzo da Ponte, governò il territorio fino al 1769, anno in cui la Serenissima vi insediò un podestà. Dal 1866, con l’unificazione di Ceneda e Serravalle in Vittorio, il palazzo perse dunque le sue funzioni civiche e venne adibito a deposito comunale e archivio storico. Questa rimase la destinazione d’uso fino al 1938, quando vi trovò sede il neonato Museo della Battaglia. Qui vennero riuniti tutti i cimeli di guerra donati alla cittadinanza dal vittoriese Luigi Marson (1899-1952). Nel corso degli anni sono stati eseguiti vari interventi alla struttura dell'edificio: dopo il cambio di destinazione d'uso in Museo, nel 1958 con delibera n. 554, la Giunta Municipale dispose un intervento di sistemazione su tetto e solaio del salone, al tempo gravemente pericolanti. In occasione del I° centenario di Vittorio Veneto, la giunta Toffoli dispose vari interventi: l'alloggio del custode venne spostato dal museo all'edificio annesso, nel museo si ricavarono spazi per l'ingresso, per gli spazi espositivi, per i servizi, per la biblioteca dedicata e l'archivio nel sottotetto. Nel 1975 venne sostituita una trave lignea ammalorata in copertura e nel 2006 venne consolidato il pilastro angolare della Loggia ad ovest.

L’architettura e l'organizzazione degli spazi

Il palazzo che attualmente ospita il Museo è stato il luogo di riunione del Maggior Consiglio di Ceneda. L’edificio, a blocco unico, confina ad est con la Chiesa sconsacrata dedicata ai santi Paolo Apostolo e Francesco d’Assisi, ad ovest con un piccolo edificio in tre piani. La facciata risala alla prima metà del ‘500,si sviluppa su tre livelli ed è ricoperta di intonaco monocromo giallo ocra. La parte inferiore presenta una loggia con tre pareti affrescate a nord, est e ovest, e cinque aperture su un esastilo orientate verso sud, ovvero verso Piazza Giovanni Paolo I. Sulla facciata poi spiccano tre bifore, di cui le due laterali finestrate e quella centrale dotata di balcone, con al di sopra una stele in pietra raffigurante un leone marciano. La copertura, costituita da un tetto a padiglione sostenuto da capriate in legno con rinforzi in acciaio, è realizzata in manto di coppi. Dal 2012 al 2014 si è svolto il restauro dell’intero Museo, comprendente il consolidamento strutturale e il rinnovo degli spazi espositivi dell’edificio. Oltrepassando la loggia affrescata da Pomponio Amalteo in direzione del parco Papadopoli, si accede all’ingresso del percorso strutturato con un alto muro, lungo il quale sono esposte due bombarde risalenti alla Grande Guerra. Subito dopo si incontra l’accesso principale, che conduce all’atrio. Il pian terreno comprende la loggia stessa, l’atrio d'ingresso del Museo, gli spazi espositivi dedicati alla vita in trincea; una sala multimediale, il bookshop, e la ex chiesa dei Santi Paolo Apostolo e Francesco d’Assisi, attualmente ospitante l’albo dei Cavalieri di Vittorio Veneto e utilizzata anche come spazio espositivo per mostre temporanee. Il secondo livello comprende un percorso su Vittorio Veneto durante l’occupazione Austro-Ungarica, e l’armeria Marson, ovvero una sala che raccoglie parte della consistente collezione di reperti bellici di Luigi Marson appartenente al primo nucleo espositivo. Il secondo piano ospita l’Aula Civica (sede delle riunioni del comune di Ceneda a partire dall’edificazione del palazzo stesso nel 1536, resa poi aula civica del comune di Vittorio a partire dal 1866 fino alla costruzione dell’attuale municipio nel 1873), tre sale espositive conservano l’allestimento originario del Museo.

La ex chiesetta di San Paolo

La piccola cappella di San Paolo al Piano è un edificio attiguo al Museo della Battaglia. Il complesso architettonico si articola in tre spazi: l'ambiente principale ad un'unica navata, la sagrestia e il campanile. L'abside custodisce un altare sormontato dalle statue di quelli che si ipotizzano essere San Paolo apostolo e San Francesco d'Assisi. Non è possibile identificare con certezza i santi dato che non recano gli attributi canonici tuttavia il primo è abbigliato con una veste drappeggiata di ispirazione romana e, dato che la cappella è dedicata a San Paolo, potrebbe trattarsi di lui. L'altro ha una lunga tonaca rattoppata, fermata in vita da un cordoncino da cui pende il crocifisso: forse un saio francescano. I seggi corali, disposti lungo le pareti perimetrali dell’abside, sono lignei. La parete opposta allo stesso ospita un vecchio e pregiato organo, un De Lorenzi. Una piccola cappella conserva una fonte battesimale in marmo di Carrara e la sagrestia porta ancora il segno del passaggio di una delle confraternite che la chiesa accolse nel corso della sua storia, un contenitore per l'acqua santa in marmo bianco a forma di teschio, ricordo della Scuola della Buona Morte. San Paoletto fu certamente la chiesa dell’attiguo cimitero fino a quando le salme non vennero trasportate in un'altra sede in periferia della città ma ancora oggi non sappiamo con certezza la data di costruzione di questa chiesa: alcuni sostengono che sia stata edificata nel Seicento dato che la costruzione di una sede comunale comportava di solito anche quella di una vicina cappella, altri sostengono che risalga al Settecento per lo stile lievemente barocco che si avvicina molto a quello delle vicini oratori settecentesche di San Filippo Neri e Sant'Antonio da Padova. Riguardo alla committenza non possiamo avere delle certezze ma la chiesa conserva l'iscrizione, ai piedi della statua di San Paolo sulla facciata, che riporta le iniziali puntate del committente: "A. C.". Grazie ad un'attenta analisi dei registri dei Morti della Cattedrale è stato possibile ipotizzare che si trattasse del vescovo Agazzi e questo avvalorerebbe dunque la tesi secondo cui l'edificio sarebbe da datare intorno agli inizi del Settecento. La Scuola della Buona Morte, eretta ufficialmente nel 1720 e votata alla cura e al seppellimento dei cadaveri, fu la prima confraternita che utilizzò la cappella, poi ebbero qui la loro sede anche quelle di San Filippo Neri e della Madonna del Carmine. All'epoca del primo Regno d'Italia fu demaniata e abbandonata. In seguito, per volere del sacerdote Don Bartolomeo Rossi fu riaperta al culto. Venne restaurata, ampliata del secondo coro, arredata e passò dunque agli Offici religiosi della Scolaresca ginnasiale esterna. Nel 1903 fu qui trasportata la fonte battesimale in marmo di Carrara dalla cattedrale, scolpito da Arcangelo Zanette, e nel 1916 fu portata a termine la costruzione dei gradini esterni. I confratelli dell'oratorio di San Filippo Neri crearono un patronato per giovani aperto a tutti nel 1904 e fu consegnato nelle mani del vescovo, che fece buon uso della piccola chiesa. Durante la prima guerra mondiale il vicino seminario si tramutò in un ospedale militare e gli studenti si riunirono nella cappelletta fino al 1920, anno dopo il quale seguirono altri restauri che riguardarono l'aggiunta di due finestre dietro la sede della fonte battesimale e la collocazione di un impianto elettrico. Il Comune cedette il 25 ottobre la chiesa alla parrocchia di S. Maria Assunta al prezzo simbolico di L. 1 ad alcune condizioni tra cui il dovere di non apportare modifiche né all'edificio né al suo uso, di provvedere alla manutenzione e di restituire la proprietà dell'area al Comune in caso di demolizione. L'edificio, oggi sconsacrato, fa parte del percorso del Museo della Battaglia: ospita il Memoriale dei Cavalieri di Vittorio Veneto, i laboratori multimediali e mostre temporanee. 

La loggia: gli affreschi di Pomponio Amalteo

I soggetti degli affreschi

Giudizio di Daniele
L’affresco a sinistra raffigura il giudizio del profeta Daniele che salva dalla morte la casta Susanna. Questa scena è narrata nella Bibbia (Daniele, 13), in cui si racconta di questa giovane, moglie del ricco Ioakìm, accusata ingiustamente di adulterio da parte di due anziani, entrambi innamorati di essa. Una volta radunati in casa del marito, Daniele, guidato dal Santo Spirito, espone al popolo la verità, salvando così la giovane. Nell’affresco essa guarda al cielo con quella fiducia che ispira la sua innocenza. In mezzo, il giovine Daniele, appare in atto di affrontare i giudici. A destra si notano la confusione e il rimorso sulle oscure facce dei due calunniatori. Appare di bellissimo aspetto la contrada. La popolazione si affaccia dalle finestre e dai balconi sotto i quali passa il corteo.

Giudizio di Salomone
Di fronte, nella parete destra, troviamo il giudizio di Salomone. Anche questo episodio, come il giudizio di Daniele, è narrato nelle Sacre Scritture (Primo Libro dei Re; 3, 16-28). Il libro narra le gesta del re d’Israele, il quale, di fronte a una disputa tra donne riguardante l’appartenenza di un figlio, riuscì a riconoscere la vera madre del pargolo in questione. Nell’affresco il re è seduto in trono, circondato dalle guardie e dai suoi consiglieri mentre nel mezzo abbiamo un arco ed una fuga di colonne. Il pittore raffigura il momento in cui la donna malvagia accetta che il bambino sia tagliato a metà.

Giudizio di Traiano
Più conservato dei precedenti è il terzo giudizio, dipinto nel mezzo. La tradizione narra che un figlio dell'imperatore a cavallo, percorrendo una via di Roma, abbia calpestato e ucciso il figlio d'una povera donna. La madre, con il bambino morto in grembo, attende il passaggio dell’imperatore per chiedere giustizia. Traiano arresta il focoso destriero e chiamando il giovane al suo cospetto gli dice che, a causa dell’uccisione dell’unico figlio della donna, dovrà ritenersi suo figlio e da quell’istante riguardarla come propria madre. Il seguito numeroso che esce da una porta della città e muove al campo si arresta. Si possono notare bellissimi cavalli frenati da abili guerrieri. Di grande effetto sono le fortificazioni esterne, le montagne e i colli adorni di belle piante. Si nota sotto una iscrizione, che è traducibile in italiano con “Questa immagine regia ed opera di pietà, indice del vero sapiente, insegnino a seguirla e a star lontani dalle cose empie'”.

Tecnica e restauro

L'ambiente di conservazione poco protetto e la datazione degli affreschi parietali su intonaco della loggia (1537-1538) hanno contribuito al deterioramento di queste opere, talvolta giungendo persino a renderne difficoltosa la leggibilità. Nel tempo, il progressivo deposito di polveri atmosferiche e residui organici, le fessurazioni, le macchie di disgregazione, l'alterazione cromatica e le efflorescenze saline hanno compromesso l’integrità degli affreschi. I riquadri figurativi, originariamente eseguiti su intonaco in malta di calce e sabbia, sono stati realizzati con la tecnica dell'affresco. Quest'ultima è un'antichissima tecnica pittorica che si realizza dipingendo con pigmenti, generalmente di origine minerale stemperati in acqua, su intonaco fresco: in questo modo, una volta che nell'intonaco si sia completato il processo di carbonatazione, il colore ne sarà completamente inglobato, acquistando così particolare resistenza all'acqua e al tempo. Nel XIX secolo, la Loggia ha subito un complessivo intervento di restauro che è consistito principalmente in ritocchi pittorici e stuccatura delle fessurazioni. Le ultime operazioni, condotte in occasione del grande restauro iniziato nel 2012 e conclusosi nel 2014, si sono invece incentrate sul consolidamento superficiale sulle porzioni che presentavano distacco della pellicola pittorica, lungo tutte le fessurazioni e nelle zone disgregate e sull'intervento di pulitura dell'intera superficie, tramite rimozione a secco e impacchi con sostanze basiche per ridurre le macchie localizzate. Si tratta di un restauro di tipo conservativo, dunque non invasivo, che si è proposto di agire principalmente con mirate azioni di pulitura, senza ricorrere alla rimozione dei ritocchi pittorici presenti e già storicizzati. Nella parete ovest, particolarmente interessata, a causa della vasta zona di integrazione con intonaco grezzo che occupa buona parte dell'affresco, si è deciso di operare rimuovendo l'inserzione è rifinendo la superficie con una meno invasiva tinta neutra.

L’artista: Pomponio Amalteo

Pomponio Amalteo nasce nel 1505 a Motta di Livenza da Ser Leonardo della Motta e Natalia Amalteo, da cui prende il cognome traendo vantaggio dalla fama degli zii Paolo, Marcantonio e Francesco, celebri insegnanti di lettere. Pomponio sviluppa fin dalla giovane età una profonda attitudine per l'arte pittorica, che si concretizza nell'incontro con colui che sarebbe divenuto il suo punto di riferimento: Giovanni Antonio de' Sacchis detto il Pordenone. La complicità e l'ammirazione che corre tra allievo e maestro non frutta soltanto una serie di collaborazioni artistiche, bensì anche il matrimonio tra Amalteo e Graziosa, figlia del Pordenone, nel giugno del 1534. Nel 1539, Amalteo acquista un'abitazione a San Vito al Tagliamento: qui lavora fino in tarda età, muovendosi ben poco dalla zona, ricopre svariate cariche pubbliche e riceve numerosi attestati di benemerenza e titoli onorifici dal Patriarca di Aquileia cardinale Marino Grimani. Il cardinale stesso gli commissionò le opere realizzate a Vittorio Veneto. Pomponio Amalteo si spegne il 9 marzo del 1588 nella sua San Vito e viene sepolto presso la Chiesa di S. Lorenzo in una tomba predisposta per sè e gli eredi. Ha eseguito numerosi dipinti e cicli di affreschi che decorano ancora oggi non solo molto chiese del Friuli e del Veneto, ma anche diversi palazzi e dimore. Eccellente pittore e abilissimo frescante, l’artista è menzionato con parole di elogio da Vasari, che nella seconda edizione delle Vite (Firenze 1568), egli lo include tra gli allievi più dotati del Pordenone: “seguitando sempre il suo maestro nelle cose dell’arte, si è portato molto bene in tutte le sue opere”. A Vittorio Veneto, oltre agli affreschi della Loggia, ha eseguito i dipinti su tavola delle portelle dell’organo della Cattedrale di Ceneda raffiguranti la storia di San Tiziano e attualmente conservati presso il Museo Diocesano “Albino Luciani”.

L'Aula Civica: la storia di Ceneda, le virtù e i Vescovi

Gli Affreschi

I cenedesi rispingono l’assalto di Guecello da Camino
Si narra che nel 1316 il conte Guecello Da Camino tentò di espugnare la rocca di Ceneda. L’impresa però fallì. Nel 1317 Guecello si diede a preparare una nuova campagna chiedendo l’aiuto di Formeniga unita con Serravalle, Feltre e Belluno. Dunque l’8 giugno, all’alba, si spinse alla volta di Ceneda, ma i Cenedesi furono pronti alla difesa e respinsero il nemico che sfogò l’ira distruggendo i villaggi vicini e uccidendone gli abitanti. Questo secondo fatto è il soggetto dell’affresco della parete nord dell’aula civica di Ceneda. La scena rappresenta il momento in cui il sole, che illumina i vincitori, comincia a sorgere, mentre sul lato opposto avanzano nuvoloni minacciosi che coprono i vinti. La scena è collocata tra il borgo superiore e le inferiori contrade di Ceneda, ai piedi del castello di San Martino, attuale residenza vescovile. Due personaggi spiccano nel dipinto: Guecello da Camino e Adalgero della Torre. I due guerrieri dominano la scena per i corpi atletici e poderosi, per la ricchezza delle armature e per gli impetuosi cavalli che montano. A destra si può riconoscere, dal vessillo troncato di nero e argento e dal bianco cavallo recante sull’armatura anteriore l’insegna del potente casato, Guecello da Camino che con la spada indica ai suoi di raccogliersi e si rivolge indietro per vedere se le truppe nemiche lo inseguano. La sortita è il centro dell’azione dell’affresco: la fuga disperata del caminese e dei serrevallesi, l’incedere vittorioso dei cenedesi e di Adalgero. Quest’ultimo è riconoscibile nel personaggio di schiena in groppa a un poderoso cavallo bianco, in atto di indicare con la spada protesa il nemico.

Il Vescovo Francesco Ramponi infeuda i procuratori di San Marco
L’affresco rappresenta l’investitura di Serravalle e di altri territori limitrofi appartenuti precedentemente alla famiglia Da Camino; dopo la morte di Rizzardo VI nel 1335, Verde Della Scala, rimasta vedova senza eredi maschi, riconsegna l’antico feudo all’allora vescovo di Ceneda Francesco Ramponi. Questi lo cede a sua volta ai procuratori di San Marco, che lo resero il primo dominio di terraferma della Repubblica veneziana, a condizione di ricevere metà delle rendite. La vicenda è ambientata a Venezia, nel palazzo della famiglia Dalla Riva, dove era ospite Ramponi, il 12 ottobre 1337. Il centro della scena è occupato dall’imponente trono su cui siede il Vescovo che, con abbigliamento solenne, conferisce l’investitura ai tre procuratori, uno dei quali, inginocchiato ai piedi di Ramponi, posa la mano sinistra sui Vangeli, in segno di fedeltà. A sinistra del trono si trovano i ministri portatori della croce e del pastorale, simboli del potere ecclesiastico, mentre sulla destra quelli che recano il simbolo dell’autorità civile, la spada. Dietro il Vescovo, è riconoscibile il parroco di Sant’Andrea di Serravalle, nel ruolo di testimone. Di fronte, il notaio è seduto e si appresta a trascrivere l’atto ufficiale e dietro di lui altri testimoni assistono alla cerimonia: tra questi spicca una coppia di amanti e un gruppo di donne, una delle quali tiene in braccio un bambino. L’affresco presenta alcune incongruenze di carattere cronologico e geografico: i dettagli architettonici e gli abiti indossati dai personaggi richiamano lo stile del primo Trecento, corrispondente all’epoca dei fatti, mentre altri particolari, quali le lunette lungo il soffitto, la rappresentazione della Trinità sullo stendardo del trono e il dipinto raffigurante Palazzo Ducale, sono di ispirazione quattrocentesca. L’inesattezza data dallo scorcio su Piazza San Marco, visibile dalla finestra, è voluta probabilmente per rendere più facile il riconoscimento del luogo dipinto, considerando la fama del campanile veneziano. Da Palazzo Dalla Riva, infatti, situato nel Sestiere di Castello, non è possibile una nitida visione frontale della piazza, come invece appare nell’affresco.

L’imperatore Carlo IV conferma il feudo al Vescovo di Ceneda Guadalberto d’Orgueil
Nell’anno 1354 il vescovo di Ceneda si reca in visita all’Imperatore Carlo IV in passaggio a Feltre, per pregarlo di riconfermare antichi privilegi concessi dai due predecessori di Carlo, Berengario e Federico. La motivazione di questo gesto di sottomissione al volere imperiale è da ricollegarsi ad un desiderio di accrescere il proprio prestigio. De Min, per dipingere la scena, riprende la descrizione che ne fa Cambruzzi nel libro V della Storia della Città di Ceneda, il quale peraltro aggiunge che, nei giorni in cui si fermò a Feltre, l’Imperatore venne visitato dagli ambasciatori di famiglie illustri quali i Visconti, gli Estensi, i Gonzaga e gli Scaligeri, riconoscibili dagli stemmi sulle vesti. Il palazzo che si erge in secondo piano è identificabile con il castello di Alboino, meglio conosciuto come Castello di Feltre. Questo venne costruito a partire dal 540 su una preesistente torre di vedetta romana situata sul punto più alto del colle, ed era completamente cinto da una mura con quattro torri angolari. Sopra la porta d’ingresso della Torre del Campanon, che domina con la sua altezza l’intero complesso, figurano tre stemmi: in particolare quello al centro, visibile nell’affresco, raffigura un castello turrito, che è il simbolo della città. Era usanza a quel tempo ospitare gli eventi importanti in spazi aperti, come in questo caso la piazza prospiciente il palazzo pubblico, in modo che tutta la popolazione vi potesse assistere.

Apoteosi dell’Imperatore
L’affresco del soffitto rappresenta l’incoronazione di Ferdinando I a Re del regno Lombardo-Veneto e lo vediamo seduto sul trono con abiti imperiali. Il genio dell’Austria è in volo, con un abito bianco a righe rosse e rivolge la mano destra sul capo dell’imperatore mentre con la sinistra indica quattro stelle che presentano al centro le iniziali dei sovrani austriaci più illustri per virtù: Rodolfo I, Maria Teresa, Giuseppe II e Francesco I. A destra del trono troviamo innanzitutto la Pace che porge al sovrano dei rami d’ulivo con la mano destra e con la sinistra indica cosa fiorisce sotto il suo regno. Vicino vi è l’Abbondanza, rappresentata con in mano una cornucopia. La Poesia invece ha il capo coronato d’alloro e, suonando e cantando, celebra l’importante avvenimento. A fianco si vede il gruppo delle Belle Arti (Architettura, Scultura e Pittura): l’Architettura cerca di avvicinarsi all’imperatore per spiegargli il disegno raffigurante l’arco della pace; chiaro riferimento al periodo inaugurato dal nuovo sovrano; la Scultura mostra l’effige dell’imperatore scolpita su un medaglione e la Pittura porta il ritratto di Maria Teresa. Accanto c’è l’Agricoltura che, adornata da una ghirlanda di spighe posta sul capo, si appoggia all’aratro e tiene in mano i segni dello zodiaco. Si scorgono poi l’Industria, che tiene la mano alata e occhiuta fissata a un’asta, e il Commercio che, con indosso un ricco abito da pellegrino, tiene in mano un’ancora e una ruota. Tra tutte queste figure spunta anche la Forza, immagine tipicamente deminiana, che si trova tra due leoni e che viene rappresentata con le sembianze di un giovane atleta armato di lancia e scudo, portante sull’elmo il motto imperiale “Recta Tueri”, raffigurato nell’atto di respingere tre geni malefici, vogliosi di uscire dall’abisso per turbare la pace universale. All’estrema destra della scena sono rappresentati dunque tre genietti che si trovano sui gradini del trono, mantengono l’ordine e indicano l’amore delle Arti, del Commercio e dell’Industria. Stanno intorno alla pace e uno è intento a staccare dall’ulivo alcune foglie, l’altro le riceve e le porge al terzo e quest’ultimo infine le lega all’elsa della spada. L'ulivo infatti, simbolo di pace, legato intorno alla spada, simbolo di guerra, testimonia il periodo di pace che Ferdinando I voleva stabilire. A sinistra invece troviamo vicina al trono la Religione, distinta dal volume dei sette sigilli. Il Diritto poi è una figura maestosa che avanza porgendo la corona di ferro e che ha scritto sui lembi della veste “Per me reges regnant”. Il Genio Lombardo e il Genio Veneto, fraternamente abbracciati, perché riuniti sotto un unico regno da Ferdinando I, si trovano in cielo. In secondo piano vi sono trentatré figure femminili che simboleggiano le città del regno che si è venuto a creare e si avvicinano al trono in atto di omaggio. Sempre da questo lato si vede la Clemenza che, in atto di supplica, chiede la grazia per alcuni colpevoli e con il lembo del manto nasconde al sovrano gli strumenti del rigore. Poi sta la Giustizia che porge al sovrano il codice delle leggi e protegge con la spada gli innocenti e gli inermi ai suoi piedi. Troviamo inoltre la Storia che tiene in mano una penna, aspettando il momento solenne dell’incoronazione per registrarlo negli annali. Per ultimo invece viene rappresentato il Genio della Verità che è nudo e porta il sole nella mano destra.
Gli affreschi all’estremità del soffitto vengono realizzati da De Min con la tecnica a chiaroscuro a finto bassorilievo e sono posti a decoro della scena centrale, tanto da esserne un seguito e svilupparne i temi in maniera più approfondita.

Ferdinando I concede l’amnistia
La figura principale di questo affresco è la Clemenza che si trova anche a sinistra nell’affresco centrale. Viene presentata la scena in cui la stessa, ottenuta la grazia, libera dai ceppi e dalle catene i condannati. Sul trono sta Ferdinando I, sotto, invece, vengono poste le armi, la cui posizione non è casuale, infatti indicano la gravità delle azioni compiute e vogliono esserne da monito affinché queste non si ripetano.

Ferdinando I premia i cittadini meritevoli
L'affresco fa riferimento all’avvenimento storico del 6 settembre 1838, nel quale l’imperatore promulgò un armistizio generale per tutti i detenuti per reati politici nelle province italiane dipendenti dall’Austria. Viene quindi rappresentato il momento illustre della storia in cui Ferdinando I consegna le medaglie a chi ne è degno. Vicino al trono si trova il Genio del Bene Pubblico, mentre, più a lato, i geni del Veneto e dell’Insubre decidono a chi sono destinate le medaglie. Augusta, invece, prende dal monarca il pegno e lo dà ai due geni che lo consegnano a coloro che se lo meritano. I nomi dei prescelti si trovano nel libro tenuto in mano dalla figura che chiude la scena.

La rappresentazione di Vittorio
Il soffitto della stanza attigua, adibita a sala espositiva e identificabile con la Sala del Mito, è adornata da un dipinto raffigurante l’effigie di una donna che rappresenta la città di Vittorio Veneto, accompagnata da due putti che le stanno ai fianchi con gli stemmi di Ceneda (rosso) e Serravalle (blu).

I Vescovi

Francesco Ramponi (?-1349)
Francesco Ramponi, bolognese dell’ordine degli Eremitani, esperto di legge e teologia, venne eletto Vescovo nel 1320, anno dell’occupazione di San Martino da parte dei nobili Castelli. Pertanto, fu costretto a stabilirsi momentaneamente presso la residenza dei Caminesi a Serravalle. Dopo la morte dell’ultimo esponente della famiglia, nel 1337 conferì l’investitura dei feudi appartenuti a questa ai procuratori di Venezia, come rappresentato nell’affresco della parete ovest. Nel 1339 poté stabilire la propria residenza presso il Castello e nel 1342 fece fondere la campana dell’Arrengo, oggi visibile nella parte posteriore del duomo cenedese. Morì nel 1349, dopo ventotto anni di episcopato e fu sepolto all’interno della Cattedrale.

Gualberto De Orgoglio (1349-1374)
Nato in Aquitania, Gualberto de Orgoglio venne eletto vescovo di Ceneda il 13 novembre 1349. Era un frate domenicano, lettore di Teologia a Tolosa, si dice fosse un uomo di grande virtù e dedito alla lettura, anche di testi ritenuti profani. Nominato Vescovo, fu mandato dal Papa Clemente VI a Costantinopoli come “legato pontificio” per trattare l’unione della Chiesa greca con quella romana. Il 27 giugno 1354, approfittando del passaggio a Feltre di Carlo IV, si fece ricevere dall’Imperatore ed ebbe la riconferma di tutti i diritti vescovili, facendosi aggiungere il titolo di “Principe”. In seguito si unì a Ludovico Re d’Ungheria e ai suoi alleati caminesi contro Venezia. Con la pace siglata a Treviso nel 1358 si concluse la battaglia, nella quale De Orgoglio dimostrò di essere più un Principe che un Vescovo. Morì nel 1374.

Marino Grimani (1488/89-1546/47)
Marino Grimani, proveniente da una nobile famiglia che per generazioni aveva ricoperto cariche ecclesiastiche, fu eletto Vescovo a soli vent’anni, ma poté assumere l’incarico solo sette anni dopo, raggiunta l’età canonica. Dopo un soggiorno a Roma, prese il posto dello zio, diventato vescovo di Ceneda, nel ruolo di Patriarca presso Aquileia. Nel 1545 riprese il suo incarico originario nel cenedese. Durante il suo episcopato fece costruire la torre campanaria della Cattedrale, che porta ancora incisa la sua iniziale. Dopo alcuni provvedimenti all’interno del consiglio comunale, che avevano limitato il potere dei nobili cenedesi, questi si appellarono al Doge di Venezia, che provvide rimuovendolo dalla carica. La sua speranza riposta nella decisione del Papa, sfumò e si trovò quindi costretto a ritirarsi a Civitavecchia, dove probabilmente morì per avvelenamento nel 1547 e fu in un primo momento sepolto. Altre fonti ne collocano la morte presso Orvieto, l’anno precedente. Attualmente la sua tomba si trova a Venezia.

Lorenzo Da Ponte (1695-1768)
Patrizio di origine Veneziana, fu nominato Vescovo di Ceneda il 16 maggio 1739 per la sua operosa predicazione, ma la consacrazione venne ufficializzata il 17 dicembre dello stesso anno. Il 23 marzo 1740 fece il suo ingresso a Ceneda e venne accolto calorosamente dalla cittadinanza che lo accompagnò da San Giacomo di Veglia fino al castello di San Martino. Uno dei suoi compiti più ardui fu la costruzione della nuova cattedrale che non volle solamente restaurare ma progettare ex novo: per farlo passò di casa in casa a raccogliere contributi e gestì lui stesso la contabilità del progetto. I lavori durarono ben 33 anni e continuarono anche dopo la sua morte. Da Ponte ebbe sempre contatti con Papa Benedetto XIV, visitò più volte le parrocchie e consacrò molte chiese, battezzò e diede il suo nome a Emanuele Conegliano (noto come poeta e scrittore, nonché librettista di Mozart). Si dimostrò sempre molto generoso nei confronti del popolo: tanto che al momento della morte volle donare tutti i suoi averi alla comunità. Morì il 9 luglio 1768 e venne sepolto nella tomba dei Vescovi all’interno della Cattedrale di cui aveva lui stesso iniziato i lavori. Lorenzo Da Ponte fu l’ultimo Vescovo Conte, perché dopo la sua morte ebbe fine il dominio temporale dei vescovi Cenedesi sulle Contee di Ceneda e Tarzo.

Albino Luciani (1912-1978)
Albino Luciani entrò nel seminario interdiocesano di Feltre e in seguito in quello di Belluno. Fu insegnante e vicerettore presso il seminario gregoriano di Belluno. Nel 1947 si laureò in Sacra Teologia alla Pontificia Università Gregoriana di Roma. Nel 1956 gli fu erroneamente diagnosticata una tubercolosi incurabile e per questo fu costretto ad abbandonare la sua diocesi per trasferirsi in Valtellina dove i medici, accortisi degli errori dei colleghi, gli diagnosticarono una polmonite. Nel 1958 ricevette finalmente la consacrazione episcopale e prese possesso della diocesi di Vittorio Veneto nel 1959, anno in cui riversava in condizioni economiche critiche. Infatti, in quegli anni, la Banca Vaticana era in crisi e Luciani accusò il sistema generale sostenendo che la Chiesa avrebbe dovuto avere una condotta economica il più trasparente possibile e coerente agli insegnamenti del Vangelo. Una volta diventato patriarca di Venezia, si battè apertamente contro l’istituzione del divorzio durante il referendum del 1974. Venne eletto Papa il 26 agosto del 1978 con il nome di Giovanni Paolo I. Morì nel suo appartamento il 28 settembre 1978 dopo soli 33 giorni di papato. Nel 2015 venne concluso il suo processo di beatificazione.

Le Virtù

Prudenza
Viene rappresentata come una donna i cui attributi sono lo specchio che, come scritto nel libro della Sapienza (8,26), è “riflesso della luce di Dio, uno specchio lucido, ti fa vedere che Dio agisce ed è un’immagine della sua bontà” e il serpente perché come si legge nel Vangelo di Matteo (10,16) bisogna essere “prudenti come serpenti”.

Modestia
Viene rappresentata come una donna dal capo coperto e lo sguardo basso, come volesse non guardare il bene che compie verso gli altri.

Diligenza
Viene rappresentata come una donna accompagnata da una clessidra, simbolo dello scorrere del tempo e uno sperone, strumento solitamente utilizzato al fine di esortare l’animale, in questo caso l’uomo.

Sincerità
Viene rappresentata come una donna con un cuore anatomico nella mano sinistra, quasi lo stesse scrutando nell’intimo, e sul braccio destro una colomba ad indicare la candidezza, con un ramo d’ulivo nel becco simbolo per eccellenza di pace.

Silenzio
Viene rappresentato come una donna nell’atto di portare l’indice alle labbra per indurre al silenzio. Ai suoi piedi, un’oca, animale considerato particolarmente chiassoso, porta in becco una perla che le impedisce di fare rumore: ciò simboleggia che è meglio tacere piuttosto che parlare a sproposito.

Carità
Viene rappresentata come una donna, circondata da bambini, mentre allatta un neonato. Si rifà alla Caritas romana, in particolare alla leggenda, narrata dallo storico Valerio Massimo, secondo cui il vecchio prigioniero Cimone, condannato a morire di stenti, venne allattato e salvato dalla figlia. Nell’iconografia cristiana la figura dell’anziano viene sostituita da quella di un bambino e dunque allegoricamente la Carità assume una connotazione materna. L’amore incondizionato e gratuito di una madre è paragonabile a quello di Gesù: l’una si sacrifica per i figli, l’altro per l’umanità.

Pace
Viene rappresentata come una donna con in mano un ramo d’ulivo, nell’atto di pestare un’armatura e di spegnere una fiaccola. Tutti gli elementi che circondano la figura non hanno semplicemente una funzione decorativa, ma anche simbolica: l’ulivo rappresenta la pace, la vittoria, la gloria immortale e la riconciliazione; l’armatura è simbolo di guerra, ma, se calpestata, assume il significato opposto. La fiaccola, invece, se accesa, rappresenta la discordia. L’atto di spegnerla allude quindi alla fine di questa.

Fedeltà
Viene rappresentata come una donna con in mano delle chiavi, affiancata da un cane, l’animale che più incarna questa virtù.

Giustizia
Viene rappresentata come una donna che tiene nella mano destra una spada posta in verticale e nella sinistra una bilancia che rappresenta l’equilibrio tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Quest’ultima, strumento paradigmatico di equilibrio, è così divenuto l’iconogramma antonomastico della giustizia divina e umana, della legge e dell’uguaglianza.

Costanza
Viene rappresentata come una donna con il vigore e l’animo dell’eroe e le braccia saldamente ancorate a una colonna

Elezione del buono
Viene rappresentata come una donna con il vaglio tra le mani e il rastrello sotto piedi. Il primo discerne ciò che il secondo raggruma.

Amor di patria
Viene rappresentata come una donna che regge un lungo papiro su cui vengono scritti i nomi dei cittadini illustri. La donna regge anche una corona di gramigna sulla mano sinistra. Questa è un riferimento a quella che il senato e il popolo romano diedero a Quinto Fabio Massimo nella seconda guerra cartaginese per avere tolto Roma dall’assedio.