Il Museo e la sua storia Leggi di più...

Per dare all’attuale visitatore un’idea di come fosse allestito il Museo nella versione originale (per così dire), ovvero nel periodo dal 1938 al 2012, proponiamo una sorta di itinerario virtuale di quell’allestimento. In questo modo, intendiamo anche rendere merito alle finalità che hanno mosso Marson e tanti altri donatori, ma anche le autorità locali e statali di allora, nell’impostare e allestire con tanta cura un Museo così ricco di reperti e materiali.

Fino alla recente, fondamentale, riorganizzazione l’allestimento del Museo era fondato su una serie di sale, suddivise nei tre piani e dedicate a eroi locali della Grande guerra, a rimarcare l’intento di esaltare le glorie cittadine. Le prime sale del pianterreno (intitolate a G. Costantini, E. Artico e a C. De Carlo) contenevano soprattutto reperti bellici, dagli elmetti alle maschere antigas, dai fucili alle mazze ferrate, dai telefoni da campo alle giberne. Si tratta di un allestimento che rispecchia una vena collezionistica, ben presente nel Museo, e che è stata arricchita nel corso del tempo da successive donazioni.

I materiali raccolti, proposti in modo inevitabilmente poco ordinato (stante la mancanza di spazio espositivo disponibile a fronte dell’elevato numero di reperti) offrivano peraltro la possibilità di dare rilievo ai temi della cultura materiale in trincea, ai quali la storiografia degli ultimi decenni ha dedicato una crescente attenzione.

Ed è stato l’aspetto soprattutto al quale il nuovo allestimento, realizzato da Lorenzo Greppi, si è ispirato, realizzando nel pianterreno non più suddiviso in piccole sale una sorta di trincea “ideale”, in cui vengono esposti alcuni esempi di oggetti d’uso dei soldati, per combattere, ma anche per sopravvivere, per comunicare, per passare il tempo.

Fin dalle sale del pianterreno il precedente allestimento del Museo svelava anche il suo contenuto fortemente propagandistico, con cui era stato concepito in epoca fascista. Alle pareti, oltre alle riproduzioni di vario genere del famoso “bollettino della vittoria”, venivano esposte infatti alcune “frasi celebri”, pronunciate (o almeno, così si voleva far credere) da personaggi altrettanto celebri, direttamente collegati alla guerra, ma anche da autorevoli esponenti del regime fascista, come il ministro ed ex-combattente Federzoni.

Accanto alla propaganda postuma sul “mito” della Vittoria, fin dal pianterreno si trovavano numerosi documenti di propaganda di guerra in senso stretto: manifesti coevi intesi a mettere in risalto la profonda differenza fra i buoni e i cattivi.

Salendo al primo piano, si abbandona il tema degli strumenti militari per entrare definitivamente sul terreno della propaganda e dell’ideologia. La prima sala a destra (sala A. Franceschini) raccoglieva in questo senso moltissimo materiale, assai interessante, ma allo stesso tempo difficilmente fruibile e leggibile. Mi riferisco soprattutto ai “giornali di trincea”, realizzati soprattutto durante l’ultimo anno di guerra a cura di intellettuali e artisti famosi, il cui obiettivo era consolidare la tenuta morale dell’esercito sul Piave, ma anche fornire qualche motivo di passatempo. Accanto ai giornali di trincea, numerosi volantini lanciati da aerei italiani sulle linee nemiche. Scritti nelle varie lingue che erano parlate dai soldati e ufficiali dell’esercito austro-ungarico, i volantini avevano finalità di propaganda soprattutto nel senso di minare la tenuta di quella composita struttura militare.

Nella sala successiva, intestata a B. Brandolini D’Adda, la stratificazione di materiali documentari si accentuava ulteriormente. Al centro era comunque la “Battaglia”, esemplificata nell’esposizione nelle grandi bacheche lignee dei bollettini militari ufficiali, che ne ricostruivano le vicende in modo dettagliato (ma anche ufficiale). Nella sala campeggiava anche una gigantografia, che raffigurava una fotografia delle cerimonie pubbliche svoltesi a Vittorio in occasione del ventennale della Vittoria, nel novembre del 1938. La scena meritava un approfondimento soprattutto se messa a confronto con un’altra fotografia, esposta nel secondo piano, in cui veniva raffigurato il decennale, nel 1928. Mentre in quell’anno la cerimonia si concentrava nella piazza del Municipio alla presenza di una folla confusa e variegata, fatta comunque di molti civili, in abiti borghesi, la gigantografia del 1938 – anno in cui il Museo veniva inaugurato nella sede attuale – proponeva in una piazza perfettamente ordinata per ranghi la preponderanza dei militari, inquadrati perfettamente, con centinaia di bandiere. Nella gigantografia, tratta da uno scatto fotografico fatto dal sottotetto del Muncipio, i civili, ovvero gli abitanti di Vittorio Veneto, comparivano solo ai bordi della cerimonia, dominata dalle autorità e dall’elemento militare. Dal confronto fra queste due immagini – reso difficile dalla già più volte citata caotica sovrapposizione di motivi espositivi – si potevano trarre riflessioni sul consolidamento in senso militaristico del regime e dal suo essersi ormai appropriato completamente del “mito della Vittoria”, motivo di legittimazione del regime stesso.

Sempre al primo piano, nella sala intitolata a E. e G. Sommavilla, frammisti a molti materiali anche di recente acquisizione (fra cui una serie di incisioni realizzate da importanti artisti del secondo dopoguerra, aventi come tema la guerra in generale) si incontravano due documenti interessanti: il primo era un manifesto, emanato dal Sindaco di Sacile in data 29 ottobre 1917, in piena ritirata dei militari e dei civili dopo Caporetto. Il manifesto invitata i cittadini alla calma, a restare nelle loro case, e li rassicurava (con una chiara menzogna) sul fatto che la ritirata in atto fosse un movimento tattico normale, per assestare il fronte. Nessuna indicazione veniva apposta dai curatori del Museo a questo documento, che testimonia della radicale crisi che investì l’apparato civile e militare italiano dopo la sconfitta di Caporetto.

Un secondo documento interessante, ma che avrebbe dovuto essere più chiaramente contestualizzato, era rappresentato da un plastico riproducente l’altopiano del Montello. Solo un attento osservatore o un conoscitore di questioni militari poteva capire che si trattava di un’opera realizzata dagli austro-ungarici probabilmente in preparazione dell’offensiva della cosiddetta “battaglia del Solstizio” (15-23 giugno 1918). Fu l’ultimo tentativo austro-ungarico di sfondare il fronte del Piave, e il Montello era uno degli obiettivi dell’attacco. Il plastico sarà perciò servito presumibilmente per studiare i piani dell’attacco.

Il tema predominante in due delle tre sale del secondo piano (intitolate rispettivamente ad A. Tandura e G. De Nardi) era quello dell’invasione; veniva proposta (anche se nel consueto modo disomogeneo) una ricca serie di materiali, perlopiù a stampa, ma anche di reperti che illustravano una pagina della storia veneta (e italiana) finora ampiamente trascurata. Per un anno intero quasi un milione di veneti e friulani dovette subire un duro regime d’occupazione da parte delle truppe austro-ungariche e germaniche, che erano arrivate fino al Piave. Un regime segnato dalla predominante volontà degli occupanti di trarre il massimo delle risorse possibili da un territorio in cui erano rimasti quasi solo i contadini, mentre una parte consistente della sua classe dirigente si era messa in salvo dietro le linee italiane.

Su questo argomento, le due sale proponevano numerose ordinanze emanate dalle autorità d’occupazione, per sequestrare le risorse disponibili (fino alle foglie secche) e per controllare la popolazione in tutti i suoi movimenti, ad esempio con l’emissione di carte d’identità obbligatorie per qualsiasi spostamento fuori dal proprio comune. Ma venivano presentati anche diari scritti in quell’anno, o schegge delle campane abbattute dai militari per fonderle e trarne il bronzo necessario per i cannoni. Poi, lettere, foto ingiallite che ritraevano militari occupanti, talvolta assieme ai civili, piccoli oggetti, che offrivano squarci per analizzare la durissima condizione dei civili occupati, non meno che dei militari occupanti nel 1917/1918.

Preziosa è anche la raccolta di giornali pubblicati dalle autorità militari, sia destinati ai soldati (come “Die Front”, che veniva stampata a Vittorio Veneto), sia destinati alla popolazione civile: la “Gazzetta del Veneto” con il suo interessante supplemento settimanale “Domenica della Gazzetta”, che imitava nella grafica e nei contenuti l’assai famosa “Domenica del Corriere”.

Nella sala principale un elemento estraneo: una consolle o sorta di altare laico, di vetro di Murano verde-azzurro, preziosamente decorato, che custodiva sotto vetro alcune bandiere degli stati vincitori del conflitto.

La sala antistante a quella dedicata all’invasione era intitolata “Degli eroi”. Proponeva un piccolo memoriale in onore dei caduti e degli eroi. Vi campeggiava una stele su cui sono trascritti i nomi di tutti i vittoriesi caduti in guerra. Tutt’attorno grandi fotografie dei generali comandanti le armate italiane e alleate nel 1918, e di alcuni eroi. Con la sua pompa retorica questa sala contrastava nettamente con il tono dimesso della precedente, in cui i materiali relativi all’invasione venivano proposti in forme asciutte. D’altro canto, la sala degli eroi corrispondeva pienamente all’ottica celebrativa che caratterizza il Museo nel suo insieme, nell’allestimento realizzato nel 1938.

Nell’ultima sala ulteriori documenti fotografici sull’anno dell’invasione: donne avvolte in pesanti scialli in attesa, sulla scalinata del municipio, dell’agognato passaporto intero; soldati austriaci spensieratamente raccolti attorno a un “larin”; le linee telefoniche che si addensano sull’improvvisata centrale telefonica del comando della Sesta Armata, a Vittorio Veneto. Un gruppo di ragazzini armati, protagonisti di un fatto d’armi sul Fadalto nei giorni conclusivi della guerra. Infine la foto di alcuni abitanti, donne e ragazzini, che “salutavano” i liberatori: niente retorici abbracci, niente gioia, ma una rassegnata tristezza predominava sui loro volti smunti.

Gustavo Corni

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